Speranza, laicità e depressione: pensieri e domande

La speranza è l’ultima a morire o la prima a risorgere?

Ricordo ancora quando, in una delle lezioni di teologia di questo secondo anno universitario, la professoressa proiettò questa domanda sul grande schermo dell’aula. Inizialmente la trovai d’ispirazione marzulliana, poi iniziai a percepirne il significato profondo in un’epoca in cui la speranza lascia sempre più spazio alla depressione, all’arrendersi, all’incapacità di alzarsi dal letto il mattino perché privi di fiducia ed ottimismo nei confronti del futuro o, più semplicemente, del proprio quotidiano. Ho sperimentato in prima persona un certo tipo di sensazioni e pensieri (la battaglia non è ancora del tutto vinta). Nel corso di questa difficile esperienza mi sono posto differenti domande e ho provato a fermarmi, a scavare, a conoscere, a confrontarmi con l’ignoto e con il già noto. Non ho avuto vergogna nel chiedere aiuto, ma ho provato senso di colpa nell’accettarlo. Quel che è certo, lo ammetto, è che mi sono chiesto: “come può avere speranza un ragazzo senza fede come me?”, “come posso credere di ritrovare la motivazione per alzarmi dal letto il mattino, se non ho fede?”. In altre parole, al netto dell’aspetto patologico, “cosa significa sperare per un laico?”.

Un mio caro amico, una persona davvero speciale che ho conosciuto nel mio percorso universitario, è stato “avvicinato” dal Signore: lui lo ha sentito perché Lui gli ha parlato. Il mio amico cristiano vede in Gesù un sostegno per affrontare le situazioni di maggiore difficoltà, da quelle più leggere a quelle più difficili. Si rivolge a lui parlando o pregando. Fa il segno della Croce prima di ogni pasto. Lo pensa e lo ascolta con fiducia e, guarda caso, con molta fede. Addirittura, pare che una volta Gesù gli abbia pure parlato! Un laico un po’ saccente direbbe che “questo è tutto da verificare”, ma lasciamo perdere questo tipo di indagini! Scherzi a parte, lo ammiro… anzi, lo invidio. Gli invidio la sua capacità di “sentire”, di avere fiducia verso qualcuno che non si vede, ma soprattutto il fatto che Gesù ha individuato lui, mentre con me non ha mai parlato né si è mai palesato sotto alcuna forma. Tutto questo fa di me un laico non del tutto felice di esserlo? Forse sì. Certo, ci sono state svariate occasioni in cui non mi sono sentito accolto dalla Chiesa ma, al contrario, giudicato, escluso, non considerato. Anche le mie esperienze con il catechismo non sono state tra le migliori, tra un prete che bestemmiava contro un ragazzino troppo “esuberante” ed uno che ci faceva cantare “Il ballo del Qua Qua” di Romina Power senza nemmeno lontanamente considerare che, oltre a quello, avremmo potuto fare e parlare di altro. Crescendo, con il tempo, soffocando i pregiudizi, provando a perdonare e tuffandomi in luoghi molto distanti dalla mia comfort zone (e anche grazie al confronto con questo mio amico che mi ha fatto conoscere persone e luoghi a cui, da solo, non mi sarei mai avvicinato), mi sono reso conto che la Chiesa non è sempre e solo sinonimo di “Dio”. Dio accoglie, apre sempre le porte, non ti giudica, mentre la Chiesa è un’istituzione formata da esseri umani che spesso tende a rappresentare più sé stessa e chi la abita che Dio.

Tornando alla questione della laicità, come può un laico tendere la mano alla speranza? Per certi versi, come d’altronde recita il libro di Giovanni Ancona, sarebbe sufficiente regalarsi al disincanto come “unica risposta alla richiesta di una vita riuscita” quando nella nostra mente alberga spesso una domanda: “che senso ha tutto questo?”. Insomma, trattasi della domanda delle domande: qual è il senso della vita? Eppure, nonostante la mia propensione alla laicità, al di là della spietata convinzione che dopo la morte ci decomporremo e sopravvivremo solo nei ricordi di chi rimarrà e nelle tracce che avremo lasciato su questo cammino terreno, non riesco ad arrendermi all’idea che questo “passaggio” sul pianeta Terra sia destinato a vederci nascere, crescere, invecchiare, morire. Non riesco a rassegnarmi alla “condizione di finitezza” decantata da D’Arcais. La prospettiva mi sta così antipatica che, per anni, ho lavorato affinché qualcuna di quelle tracce di cui parlavo pocanzi rimanesse: ho scritto tanto, ho fatto musica, ho realizzato “prodotti creativi” che potessero sopravvivermi. Mi chiedo, con tutto il rispetto per i laici come me, se molto spesso i soldi non siano una sorta di “sostituto” alla fede e alla speranza. In altre parole, è possibile che un laico rassegnato alla finitudine si senta in dovere di dare un senso alla propria vita soddisfacendo i propri bisogni, diventando uno “speculatore” di essi e spendendo tutti i soldi in suo possesso? Che legame può esserci tra i soldi e la mancanza di fede? Sono domande che mi pongo ma alle quali faccio fatica a trovare risposta. Di certo, so cosa non vorrei mai diventare: uno speculatore dei miei bisogni. Nel libro di Marco Ronconi “Teologia da Bar: libere conversazioni su Dio e dintorni” si parla della figura dello speculatore, simile a quella che Gesù, nel Vangelo, chiama “mercenario” che non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto (e, aggiungo io, per dare un senso alla propria vita). Io, all’opposto dei mercenari, vorrei amare la mia azienda (me stesso) e i miei lavoratori (a cui voglio dare il nome di “amici e compagni di viaggio”, lavoratori tali e quali a me) senza vederli come mezzi di profitto, bensì come risorse alle quali donarmi e dalle quali prendere doni e ispirazioni. Ronconi dice che “per uno speculatore i soldi servono ai soldi. Per un imprenditore, l’uso dei soldi si misura nei volti delle persone e nella bellezza delle cose”. Ecco, è esattamente il concetto che vorrei profondamente sposare: dimenticare ogni speculazione ed essere l’imprenditore dei volti delle persone e della bellezza delle cose. Investire non i soldi, ma il tempo, l’amore, la fiducia, la condivisione, la generosità, la protezione, la gioia e, perché no, anche il dolore nei miei amici, nelle persone a cui voglio bene.

Che sia forse questa la (bella, seppur impegnativa e piena di responsabilità) soluzione laica per scacciare la rassegnazione alla finitudine e trovare un senso alla propria vita senza sconfinare nel paradigma della fede in Gesù Cristo se non ci si sente pienamente convinti di farlo? Come scrive Ronconi, “se la felicità è confusa con la salvaguardia dai pericoli, i soldi che mi serviranno saranno infiniti e mai abbastanza per garantire la salute, la forza, la libertà, il piacere”. Al contrario, mi permetto di aggiungere io, essere imprenditori dei volti delle persone e della bellezza delle cose può certamente garantire (magari non pienamente, ma in maniera sicuramente densa di significato) la salvaguardia della salute, della forza, della libertà e del piacere. Non solo questo: ad essere garantita è anche la “tendenza a vivere nell’amore autentico per sé stessi e per i propri fratelli” che, d’altronde, è uno dei pilastri fondamentali del paradigma della fede in Gesù Cristo. Infatti, come scrive Giovanni Ancona nel libro “Uomo. Appunti minimi di antropologia”, “il credere fiorisce nella vita di persone che sono partecipi di una comunità […] dando consistenza e frutti al legame amorevole tra le persone, senza esclusione”.

Questo, a dirla tutta, mi fa comprendere che, forse, si possono portare avanti i concetti del paradigma della fede in Gesù Cristo pur non ritenendosi dei veri e propri “credenti”, oppure rimanendo un passo indietro rispetto a tutti coloro che “credono” basandosi esclusivamente sul mistero di Gesù come vero significato dell’esistenza, senza averlo mai “visto” o “sentito”. Ma, quindi, “la speranza è l’ultima a morire o la prima a risorgere”? Secondo il paradigma della fede in Gesù Cristo è probabilmente entrambe le cose: l’ultima a morire e la prima a risorgere. D’altronde, la speranza è il cibo di cui si nutre ogni cristiano esistente su questa Terra. Secondo il paradigma dell’ateismo liberal e libertario la speranza, molto probabilmente, non è nemmeno considerata. Poi ci sono io, nel mio piccolo letto della mia piccola stanza, laico-ma-forse-no, che provo ad inventarmi un paradigma tutto mio, personalizzato, non classificabile, in cui la mia laicità si sposa appieno con alcuni concetti fondanti del paradigma cristiano-cattolico.

Tutto questo mi fa pensare che un laico può credere nella speranza senza dover per forza sposare comportamenti poco costruttivi (es: trasformandosi in speculatori o mercenari impegnati a soddisfare i propri bisogni), trovando la forza e la motivazione per alzarsi dal letto il mattino nel vedere fiorire la propria comunità, costruita e fondata su un patto di fede e fiducia tra persone che si vogliono bene, si rispettano e si sostengono vicendevolmente, accumunate da valori fondanti quali l’amore, il rispetto, l’accoglienza e l’istinto di protezione verso chi soffre ed è più debole.

Questa, in totale e piena umiltà, è la religione a cui voglio essere fedele.
Questo è il mio paradigma.
Qualunque nome abbia, qualsiasi cosa significhi.

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